È l’una di notte del 23 Marzo, Joy è seduta sul muretto dello stradone.
Ogni sera, da un anno a questa parte, è lì a lavorare. Con le braccia si stringe le gambe, ha il capo chino, si scorge appena la sua figura nel buio della notte.
Stanotte non fa molto freddo, rispetto alle notti della settimana precedente. Ci sono 6 gradi ed è un lusso, considerando che a Febbraio si è arrivati anche a -8. Anche in quelle notti Joy era lì, la gonna corta e i guanti alle mani. Anche in quelle notti molti clienti sono passati da lei, con l’aria calda della macchina a palla.
Joy l’ho conosciuta un anno fa, una notte in strada. Raccontare la sua storia sarebbe ripetere quelle che ultimamente si sentono raccontare di continuo: ragazzine nigeriane ingannate, promesse di lavori buoni in Europa, viaggi lunghissimi che fanno tappa in Libia, le violenze della Libia, il viaggio in mare, l’arrivo a Lampedusa e le notti in strada a prostituirsi. La madame che conta con quanti clienti va per contare poi i soldi che le porta, la violenza di molti clienti ubriachi e quella degli sfruttatori se non porta abbastanza soldi, il freddo pungente la notte, la vergogna di quello che si è costretti a fare.
Ciò che mi colpisce di Joy, è che la prima volta che le abbiamo chiesto come sta ha pianto, era in strada da pochi giorni e nessuno le aveva chiesto altro di “quanto costi?”. Che quando parla della mamma si commuove, racconta che si vergogna a dirle cosa vive in Italia, non vuole “provocarle altra sofferenza”, ma le dice che lavora come parrucchiera per giustificare i soldi che riesce a mandarle.
Dalla prima volta che l’ho incontrata, Joy è cambiata molto: a stare in strada ti fai la crosta, altrimenti non sopravvivi. Dopo qualche settimana ha iniziato a portare tacchi alti e truccarsi molto, non ti guarda in viso quando parla e se le chiedi come sta, risponde sempre che sta bene, e basta. Poi dopo qualche frase ti chiede di andare via: deve lavorare.
Dice che per pagare il debito non le manca molto, un altro anno in cui tirerà i denti e poi avrà finito, potrà tornare a casa o trovare un lavoro che le piaccia. Quando le chiedo cosa vorrebbe fare, cosa sogna, mi guarda stranita: qualunque cosa, risponde, non qui. Ancora il diritto di immaginare una vita in cui sceglie lei chi essere, non se lo è preso neanche nei sogni.
Scendiamo dalla macchina, Joy alza la testa e accenna un sorriso. Non è truccata, stanotte, non ha la gonna corta e gli stivali alti. È vestita pesante, ha una felpa calda. È diversa.
Si avvicina “ho una buona notizia” dice in inglese, non andando a scuola non ha ancora imparato molto di italiano. Sorride, alza le braccia: “Sono libera”.
Racconta che in Nigeria l’Oba Eware II, re sacerdote del Benin, ha fatto un nuovo editto con cui ha revocato il Juju, il rito voodoo che ogni ragazza nigeriana subisce prima di essere mandata in strada.
Con questo rito, presente nella cultura religiosa nigeriana, ogni ragazza prometteva di pagare i soldi del viaggio ai trafficanti, una volta arrivati in Europa, di pagarlo interamente, altrimenti lei e la sua famiglia sarebbero impazziti oppure morti. Debiti che vanno dai 20 ai 70 mila euro.
Il rito è stato dichiarato illegale, “sono libera, il juju non è più forte” continua a ripetere Joy, nessun trafficante può usare magia nera per favorire la tratta di esseri umani, adesso, continua l’Obe, saranno loro i maledetti.
“Hai visto cosa fa Dio?” sussurra Joy, mentre inizia a piangere.
Joy avrà vent’anni circa, non dice quanti anni ha. Sentirle dire che è libera, mentre piange e tiene le mani aperte verso il cielo, mi sembra un miracolo, dopo un anno che la incontro in strada, schiava degli sfruttatori e merce per i clienti.
Ma è possibile che nel 2018 la libertà sia un miracolo, un privilegio?