Mi chiamo Andreina, ho quasi cinquant’anni, sono mamma, educatrice, sono membro di una associazione di diritto pontificio Papa Giovanni xxiii nella quale si fa dell’unione con Gesù povero e sofferente la nostra via di santificazione. Sono partita per il Bangladesh a metà Ottobre del 2016, avevo dato la mia disponibilità a partire per la missione in Asia, cercavo un luogo geografico ed un luogo dell’anima dove approfondire la mia relazione con Cristo; ho offerto così la mia volontà, le mie capacità, la mia fede perché potessero essere testimonianza cristiana in terra straniera. Mi è stato indicato il Bangladesh probabilmente perché vi è una realtà di missione solida e radicata da decenni e magari potevo rendere utile la mia professionalità nei vari progetti presenti, sostegno scolastico, centro diurno per disabili , fisioterapia .
Perchè hai scelto il Bangladesh?
Io quando ho chiesto di partire per la missione cercavo un luogo dove fosse sospeso per un poco il frastuono e l’attaccamento alle cose che avevo sviluppato, avevo mille impegni, un lavoro gratificante e pesante come educatrice in un centro di riabilitazione per ragazzi con autismo, studiavo e mi aggiornavo continuamente, avevo pareti piene di libri, un armadio straboccante di vestiti, il mio materasso super ortopedico, ero informatissima sugli eventi politici ed economici del mondo, impegnata e solidale, facevo anche accoglienze nella mia casa. Ero molto ansiosa ed anche nervosa, le troppe cose mi stavano soffocando e non capivo più cosa veramente Gesù volesse da me; così ho sospeso la mia vita occidentale ed ho mollato tutto per fare il vuoto, il nulla, in un altro paese avrei capito cosa rimaneva di me stessa, se toglievo tutto ciò che mi impegnava e tutte le cose che avevo, cosa rimaneva di me stessa ?
Che cosa cercavi in Bangladesh?
In Bangladesh ho approfondito gli aspetti della vocazione nella quale mi riconoscevo che avevo lasciato in sospeso per….. mancanza di tempo….. , “i membri della Comunità cercano di fare dell’unione con Dio una dimensione di vita e danno spazio alla preghiera e alla contemplazione. Con la Parola di Dio, l’Eucarestia quotidiana e la Penitenza, la Liturgia delle Ore, l’Adorazione e l’accompagnamento spirituale si sostengono nel cammino col Signore .”
Così ho accresciuto il tempo che davo al Signore nel cammino quotidiano e ho provato a legarmi in modo gratuito e stabile a dei poveri per sviluppare un percorso specifico di vita insieme.
Quali aspettative avevi?
Prima di partire non mi aspettavo niente, sapevo che in terra asiatica i fratelli presenti avevano sempre curato e custodito preghiera ed adorazione,sapevo che vivevano con numerosi disabili ma non sapevo come era impostata la condivisione e la vita comune.
Avevo un poco letto dei missionari come figure che oltre a diffondere il profumo di Cristo si fanno anche carico delle istanze dei poveri, che li seguono nel loro “sviluppo “ che li smuovono dal torpore dell’indigenza, quell’idea di sentirsi investiti del ruolo di formatori e sviluppatori verso una società più produttiva e veloce però non mi convinceva molto, perché dovrei io insegnare a produrre, vendere, comprare, forse come occidentale sono io che devo imparare altro, forse le relazioni possono essere regolate da altro che non sia il reddito, il consumare, il costruire .
Mi aspettavo di vivere grossi disagi per il tipo di alimentazione a cui ero abituata, per la lingua, per il clima, per le fatiche, per vivere abitudini diverse dalle mie, per il dormire con altre persone, per usi e costumi. In realtà i disagi ci sono stati ,anche più grandi di ciò che pensavo, ma condividerli con i fratelli e con i piccoli del posto mi ha aiutato a superare i miei attaccamenti , dopo qualche mese ha iniziato a piacermi il riso tutti i giorni, il caldo umido, mi sono abituata agli insetti, ai viaggi interminabili in pullman, all’acqua salata della doccia, perché non guardavo più a ciò che dovevo sopportare ma al motivo per cui vivevo dei disagi ed era Gesù.
Com’è strutturata la missione in Bangladesh?
La mia condizione di vita era comunque privilegiata rispetto alla condizione degli abitanti del villaggio, mi riferisco soprattutto alle persone che vivevano nella periferia del villaggio dove gli spazi occupati dagli stagni diventavano sempre più ampi in direzione della jungla, si estendevano risaie circondate da palme, dove tutte le abitazioni erano state tirate su con canne inserite in un basamento di terra schiacciata e fango, pareti e tetto fatti di rami e foglie di palma ,intere famiglie in palafitte di dieci metri quadrati. Nella parte centrale del villaggio invece vi erano alcune costruzioni, anche palazzi un poco fatiscenti, case di mattoni, numerose scuole (i bambini ed i ragazzini son tantissimi ), moschee, templi, tantissime botteghine fatte con assi di legno, un ospedale, qualche fabbro e qualche falegname che faceva soprattutto letti .
La missione è stata tirata su a partire da diciotto anni fa, i primi missionari Rudy e Franca sono partiti dall’Italia invitati dal vescovo locale; grazie a delle donazioni di un industriale romagnolo i primi anni è stato possibile comprare dei terreni e realizzare vari progetti, sono state costruite decine di casette destinate ad alcuni abitanti del villaggio fuoricasta fatte di mattoni, è stata realizzata un’ area di orto dove per un periodo sono state allevate alcune mucche che davano il latte per la missione, casette per la para cristiana; l’area della missione comprende alcune casette dove vivono disabili adulti e persone con disagio e quattro case famiglia che accolgono nel complesso circa sessanta bambini, adolescenti ed adulti con varie condizioni di esclusione dalla società. Entro le mura della missione c’è anche una mensa che serve circa mille piatti al giorno, l’ edificio della fisioterapia, il centro diurno, la sartoria, l’edificio del sostegno scolastico per bambini di tutte le età e scuola materna per i bambini che devono ancora accedere alla scuola pubblica (in Bangladesh non esiste la scuola materna pubblica ma i bambini quando accedono alla scuola devono già saper leggere e scrivere ), sono sostenuti nel loro percorso scolastico centinaia di bambini ed adolescenti grazie alle donazioni che arrivano con l’adozione a distanza, c’è poi la distribuzione dei farmaci e del latte una volta al mese .
Devo fermarmi un attimo in questa descrizione perché da due mesi c’è un grosso problema di accesso ai finanziamenti dall’Italia, sono intervenuti nuove regole governative sulle transazioni bancarie, nel concreto succede che la missione non riesce a ricevere fondi per proseguire il suo lavoro, per dare gli stipendi agli insegnati, agli assistenti, per sostenere la mensa …….. la speranza è che si sblocchi qualcosa perché mancando l’ossigeno dovranno essere fatti tagli importanti nella opera sociale, ma per noi membri di una comunità di vita non è lavoro, i membri della comunità che vivono lì sono padre e madre di numerosi bambini, sono la nostra famiglia, chiediamo aiuto a Cristo perché possiamo capire cosa ci chiede e quali sono i giusti passi in questa situazione così critica .
Cosa significa per te povertà?
Per me essere poveri significa essere essenziali, essere sobri, conoscere i veri valori, essere diretti, essere schietti, vivere le relazioni nella verità e nella trasparenza, non avere paura di niente perché non si è attaccati a niente e non si ha paura di perdere niente. Essere poveri davvero vuol dire essere liberi e nello Spirito di Cristo .
In Bangladesh non è facile riconoscere il povero dal ricco, ci sono ricchi che vivono in capanne o palafitte coperte solo di foglie e si presentano con un solo pezzo di stoffa chiuso che li copre dall’ombelico in giù (il “lunghi” ) però hanno magari operai che lavorano per loro e distese di campi di riso di proprietà. Ci sono poverissimi che vivono anch’essi nella capanna, le donne magari hanno un solo vestito che inspiegabilmente rimane pulito e senza grinze per essere messo nei giorni di festa .
Qui c’è un altro modo di vivere, le percezioni dei bisogni sono più limitate che in occidente, le persone si identificano col gruppo sociale o religioso (musulmani ,indù) di appartenenza nel quale ci si aiuta e ci si sostiene, ci sono poi i fuori casta, gli ultimi arrivati che non hanno gruppo di riferimento, che devono un poco adattarsi nel fare i lavori più faticosi, sporchi e meno pagati, che devono un poco arrangiarsi per mettere insieme pranzo e cena; i poveri non hanno l’acqua e devono girare il villaggio con la brocca per procurarsela, non possono comprare medicine per curarsi, non possono far studiare i figli, se hanno un figlio disabile devono tenerlo chiuso nella baracca o nella capanna tutto il giorno, le figlie femmine magari cercano di farle sposare il prima possibile anche minorenni, le donne in gravidanza rischiano tantissimo per le infezioni e nel parto, i casi di paralisi infantili sono molto numerosi, come i bambini nati sottopeso, con insufficienza mentale o altri disturbi.
Fra queste persone ci sono poi gli esclusi degli esclusi, di cui nessuno può occuparsi, i disabili, coloro che cascano nelle dipendenze, coloro che per disgrazie, morti, monsoni, hanno perso casa e non riescono a riprendersi; i fratelli nella vocazione italiani o bengalesi, che vivono nelle case famiglia testimoniano attraverso la vita con questi esclusi il valore della vita al di là della condizione e del disagio in cui si è sviluppata,condividono nella casa, nel prendersi cura, nel dare da mangiare, nell’ascolto, nell’esserci sempre una vita feriale e quotidiana, una vita che non si avvale di proclami e prediche ma nella sua fedeltà e semplicità è compresa in profondità ed apprezzata da musulmani o indù.
Il portare la croce con chi è escluso parla di Cristo nella lingua comune a tutta l’umanità, i ragazzini anche con gravi handicap quando parlano di sé possono dire: ”anch’io ho una mamma “.
La parte più trascurata e giudicata inutile della società viene accolta e valorizzata nella missione, accogliere e vivere con piccoli e poveri affetti da disabilità è un segno do testimonianza cristiana che fa splendere l’uomo come soggetto al di là di capacità ed attitudini; nel nostro carisma è vero e vissuto nella carne il senso della stabilità nelle relazioni con chi ha bisogno, ci leghiamo per sempre col povero, con chi non ha chi lo ama con chi può essere riabilitato oppure no.
Quale parola useresti per descrivere il Bangladesh?
In una parola descriverei questo paese con “elasticità”, per i loro corpi capaci di adattarsi a tutte le condizioni di vita, nelle capanne o casette circondate dalle risaie, per la loro capacità di aggrapparsi sui pullman e fare lunghi viaggi sopra il tettuccio, stare in equilibrio sulle barche o portare pesi con le ceste appese ad un palo sulla spalla, per come si adattano e si ingegnano nel fare da sé con quel poco che si trova in natura per costruire strumenti, riparare attrezzi, procurarsi il cibo nella coltivazione o nella pesca, arrangiarsi e mettere su una botteghina, elasticità delle gambe nello stare chinati a terra per cucinare o lavorare .
Un incontro significativo
Un incontro che mi è rimasto in mente è stato quello che ho fatto con una madre e la sua bambina autistica di due anni e mezzo circa, quando ho aiutato una collega bengalese che aveva appena avviato un ambulatorio per bambini con autismo; la bambina stava ciondolante a terra, non alzava neanche la testa e la madre la teneva come un fagotto quasi non fosse neanche sua, un misto di vergogna ed imbarazzo. Alla osservazione diretta sulla bambina ed in seguito ad alcune sollecitazioni al gioco, abbiamo verificato che la bambina dava alcune risposte, era in grado di stabilire piccole interazioni, aveva anche accennato a dei sorrisi e vocalizzi.
Quando poi abbiamo chiesto quale fosse la routine quotidiana della bambina, la madre senza nessuna alterazione nella espressione e nel tono ci ha detto che la bambina rimaneva da sola circa tre ore tutte le mattine perché lei doveva andare a lavorare, che la metteva in una stanza chiusa e che poi quando tornava le dava da mangiare e la lasciava nuovamente lì.
Ci siamo rese conto che questa modalità era diffusa almeno a metà delle famiglie che avevamo visto, molte mamme ci raccontavano che loro normalmente mangiavano con gli altri membri della famiglia ma il bambino autistico lo lasciavano per lo più in una stanza chiusa e lo nutrivano a parte.
La parte bella di questi incontri riguarda l’altra metà delle famiglie, madri e padri attenti, persone che vivevano in città ed avevano avuto un’ istruzione, figli vivaci a volte caotici , con comportamenti da calibrare ed apprendimenti da sviluppare ma” vivi” .
Dunque una delle mamme avvedute aveva pagato l’accesso di sua tasca anche per la bambina di cui ho parlato prima; questo atto di gratuità ed attenzione mi ha fatto capire quanto è importante che ognuno di noi ci metta la sua parte, a volte piccola ed a volte importante non riusciamo a capirlo prima, ma quella parte dobbiamo avere fiducia e mettercela tutta perché ciò smuoverà altre pedine .
Vuoi aggiungere qualcosa?
La Comunità è stata chiamata anche in Thailandia per seguire una casa dove vivono alcuni bambini con disabilità grave in stato di abbandono, dove anche vengono seguiti nella cura quotidiana e nella terapia per la mobilitazione del corpo le mamme di altri bambini celebrolesi; è stato fatto dalle precedenti suore saveriane un percorso molto interessante col gruppo delle mamme che le ha ispirate ad un comportamento di solidarietà e rispetto, valorizzazione del figlio con disabilità .
Cristo ci ha chiamati a condividere la vita nel quotidiano con degli angeli crocifissi, la messe è tanta ma gli operai sono pochi; chi legge si interroghi seriamente se questa può essere una chiamata diretta proprio a lui/lei o a tutta la famiglia, per immergersi almeno cinque anni in una missione dove testimoniare con l’attenzione quotidiana ai piccoli la nostra unione con Gesù crocefisso, povero servo e sofferente, pieni della gioia di chi sa di valere poco ma di non fare un proprio disegno ma il disegno misterioso e gioioso di Dio.
Se vuoi saperne di più:
http://www.condivisionefraipopoli.org/index.php?option=com_tags&view=tag&id=27-bangladesh&lang=it